Interviste sull’arte di scrivere, di Mauro Casiraghi
Mauro Casiraghi ha raccolto su Amazon una serie di Interviste sull’arte di scrivere agli scrittori Mario Desiati, Peppe Fiore, Massimiliano Governi, Anna Mittone, Rosella Postorino, Giampaolo Simi, Giordano Tedoldi, Filippo Tuena, Sandro Veronesi, Carolina Cutolo.
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Come in un’indagine di polizia, ci sono tre sistemi per scoprire qualcosa sul rapporto di uno scrittore con la sua arte.
Il primo consiste nell’andare a caccia d’indizi tra le carte private dello scrittore. Il difetto di questo tipo d’indagine è che la si può svolgere solo postuma, quando l’autore è ormai defunto e non può chiarire i punti rimasti oscuri.
Il secondo sistema è la confessione. In un saggio, un memoir o un’autobiografia, lo scrittore, come un reo confesso, ci parla spontaneamente del suo mestiere, della gioia e fatica di scrivere, delle sue scelte artistiche. Tuttavia solo una minoranza di autori possiede questa inclinazione confessionale, e per un detective letterario curioso fino alla morbosità il quadro rimane insopportabilmente incompleto.
Entra così in scena il terzo sistema d’indagine: l’interrogatorio. Si prende uno scrittore, lo si mette a sedere in una stanza e lo si costringe con le buone o le cattive a rispondere…
Estratto dalle domande:
DOMANDA N. 8
In un documentario intitolato Incontri alla fine del mondo il regista Werner Herzog mostra un gruppo di pinguini in Antartica che attraversano una landa gelata per raggiungere il mare dove potranno nutrirsi e sopravvivere all’inverno. A un certo punto succede una cosa stranissima. Per nessun motivo apparente, uno di questi pinguini si stacca dal gruppo e si mette a correre in un’altra direzione. Abbandona i suoi simili e corre da solo verso una catena di montagne di ghiaccio, un luogo impervio e inospitale dove non c’è possibilità di trovare cibo e dove il pinguino morirà certamente. Nessuno sa perché lo faccia. Eppure sembra che abbia uno scopo ben preciso per farlo. Quando ho visto la fuga del pinguino suicida mi sono venuti in mente quegli scrittori che si staccano dal consorzio umano e vanno alla ricerca di qualcosa di inafferrabile, qualcosa che solo loro riescono a intuire, e perdono la vita nel tentativo di trovarlo.
Una lunga premessa per una breve domanda: credi esista un nesso tra letteratura e suicidio?

Il mestiere di tradurre – una chiacchierata con Anna Mioni
[articolo uscito in due puntate sul blog Grafemi di Paolo Zardi, scaricabile per intero in PDF qui]
Il mestiere di tradurre
Una chiacchierata con Anna Mioni
Grafemi: Come è iniziato il tuo rapporto con la traduzione? Riesco a immaginare qualcuno che si mette a scrivere poesie, un diario, un racconto, senza domandarsi per chi lo sta facendo. Tradurre un testo, invece, è un’attività onerosa, complicata, impegnativa: come ti sei avvicinata a questa attività? Quand’è che hai capito che questa era la tua strada?
Anna Mioni: Tradurre è un talento molto simile a una malattia cronica di cui non ti puoi liberare: il rapporto con la traduzione non lo inizi, ce l’hai dentro dalla nascita, temo. A un certo punto emerge. Io ho cominciato a tradurre per gioco molto presto, quando la maestra delle elementari di mio fratello gli insegnò lo spagnolo; mi misi a impararlo insieme a lui, e mi accorsi subito che il volume di traduzioni degli Inti Illimani con testo a fronte conteneva molti errori, e cominciai a correggerli a matita. Avevo otto anni. E appena mi innamorai dell’inglese, alle scuole medie, cominciai presto a tradurre i testi delle canzoni che più amavo (sorvoliamo sui risultati, a quell’età). Si può dire che per me la musica è la chiave principale per avvicinarmi a una lingua straniera.
Ho capito che potevo tradurre per professione quando, alla ricerca di un lavoro vero subito dopo la laurea, su Affari e Finanza di Repubblica vidi l’annuncio di un Master in traduzione letteraria dall’inglese all’Università di Venezia. Mi presentai subito alla selezione e fui ammessa. Per la prima volta scoprii che quello che avevo sempre fatto per passione poteva diventare un mestiere.
Dopo il Master la fortuna volle che un editore di Padova, il gruppo Aries (Franco Muzio editore e Arcana editrice) cercasse uno stagista per tradurre e impaginare un libro. Fu così che pubblicai la mia prima traduzione, In Marocco di Edith Wharton; poi l’editore decise di prolungarmi il rapporto di lavoro con un contratto. Da lì cominciò la mia carriera di traduttrice.
G: Sono curioso di capire come funziona, in concreto, il rapporto tra l’editore, il traduttore e l’autore. Di solito come inizia un progetto di traduzione? E’ la casa editrice che ti contatta, o sei tu che proponi un libro che ti è piaciuto? L’autore del testo originale ha qualche voce in capitolo? Ti è mai capitato di contattare un autore per chiedergli dei chiarimenti, delle delucidazioni, sul suo testo? E se sì, come si sono svolti questi contatti?
AM: Di solito i diritti di traduzione dei libri nelle lingue principali vengono acquistati dagli editori italiani quando ancora sono allo stadio di bozza, se non addirittura di proposta. Quindi ormai è molto difficile che un traduttore possa proporre a un editore un libro che non gli sia già stato presentato mesi prima dai vari agenti letterari o dagli editori stranieri. Può capitare se si tratta di letterature poco frequentate e al di fuori dei circuiti commerciali, come quelle dei paesi post coloniali in inglese, per esempio; o quelle delle lingue straniere meno diffuse (“non veicolari”, in gergo tecnico). In linea di massima, comunque, almeno nell’85% dei casi il libro viene scelto a monte dall’editore, che cerca un traduttore solo dopo averne acquisito i diritti di traduzione per l’Italia.
La casa editrice contatta il traduttore che ritiene più adatto per il libro; nella situazione ideale, sottopone una prova a due o più traduttori, per vedere quale riesce a entrare meglio nelle corde del libro (non tutti possono tradurre tutti i libri: ogni traduttore ha il suo libro ideale, e viceversa. Se interessa approfondire, con il Sindacato Traduttori abbiamo stilato un Decalogo per il processo della lavorazione delle traduzioni), ma sempre più spesso non ce n’è il tempo, e il lavoro viene affidato a professionisti di cui si è apprezzato il lavoro in passato, ricorrendo alle prove solo per i traduttori nuovi da collaudare. Se l’autore del testo originale è già stato tradotto da te in passato e apprezza il tuo lavoro, può insistere tramite il suo agente perché sia tu a tradurlo. In alcuni casi si sono stati stabiliti rapporti proficui e duraturi tra autori e traduttori, che giovano di sicuro alla buona riuscita
di una traduzione.
Se l’autore del testo che sto traducendo è vivo, capita di interagire via e-mail per alcuni chiarimenti: io cerco sempre di non abusare di questa disponibilità, e di ricorrervi solo se non trovo le risposte ai miei quesiti nelle numerose fonti che ho a disposizione. La situazione più tipica è quando una parola o un’espressione hanno 7-8 traducenti diversi: solo l’autore, a volte, può dirci con sicurezza quale accezione precisa intendeva usare. In alcuni casi con gli autori ci sono affinità anagrafiche, culturali e musicali, e se ci si conosce si finisce per rimanere in contatto e rivedersi ogni tanto per un caffè.
G: Da un punto di vista economico, si sa che gli scrittori guadagnano poco – sono rare le persone che riescono a mantenersi scrivendo romanzi o racconti. Per i traduttori come vanno le cose? E’ possibile vivere di traduzioni? Quante ore deve lavorare al giorno un traduttore per arrivare a fine mese? Pensi che lo Stato tuteli in modo adeguato i diritti di chi traduce?
AM: Per i traduttori letterari le cose sono sempre andate piuttosto male, tanto che spesso i traduttori affiancano un’altra professione alla traduzione (io stessa sono stata bibliotecaria part-time per tredici anni, e l’anno scorso mi sono licenziata per aprire la mia agenzia letteraria, AC² ). Le retribuzioni dei traduttori sfiorano a malapena la sussistenza (vedi le tariffe esposte nell’inchiesta appena condotta dalla lista Biblit), e per raggiungere un reddito dignitoso spesso si è costretti a lavorare anche il sabato e la domenica, quasi senza ferie. Aggiungiamo che non esiste previdenza e la malattia non è pagata. Per fortuna, con il sindacato Strade, abbiamo raggiunto un accordo con una mutua privata e riusciamo a tamponare le carenze legislative con questo strumento. Lo Stato da un lato tutela i diritti di chi traduce facendo sì che i traduttori godano di un’aliquota agevolata, e in generale esentando dall’IVA i proventi ricavati da diritti d’autore; dall’altro non riconosce in alcun modo ufficiale la nostra professione, né dal punto di vista dell’inquadramento contrattuale né da quello previdenziale e sanitario, esponendoci a una precarietà che una volta forse era più rara, ma ora purtroppo si sta allargando anche a molte altre categorie di lavoratori.
G: Come avviene, concretamente, la traduzione di un libro? Lo leggi dall’inizio alla fine e poi inizi a tradurlo dalla prima pagina, o lo traduci come un lettore che scopre la storia una pagina dopo l’altra?
AM: Non esiste un metodo univoco per tradurre un libro, l’importante è il risultato finale. Quindi, ognuno traduce a modo suo: c’è chi fa una prima stesura molto grezza, riservandosi di intervenire una seconda e una terza volta per chiarire i dubbi e sgrezzare i significati, e chi come me cerca di avere una prima stesura che sia il più possibile esente da dubbi, per dover curare solo la correttezza stilistica durante la rilettura. All’inizio della carriera avevo spesso il tempo di leggere per intero un libro prima di iniziare a tradurlo, ora che lavoro con tempi sempre più serrati questo è praticamente impossibile. Inoltre, con il tempo ho scoperto che è meglio non conoscere a fondo tutto il libro quando si inizia a tradurlo, perché si rischia di esplicitare per il lettore italiano quello che l’autore ha voluto lasciare espressamente sottinteso. In ogni caso, con l’ultima rilettura si riesce a rivedere tutto il libro guardandolo in modo unitario.
G: Ci sono libri che hai odiato tradurre? Non servono i titoli: mi piacerebbe solo capire cosa può rendere pesante la traduzione di un libro – la lingua? La storia? E viceversa, ci sono stati dei libri la cui traduzione ti ha entusiasmato? In questo caso, possiamo citare dei titoli?
AM: I libri che odio tradurre sono quelli che vengono scelti dall’editore solo per la trama o perché appartengono a un filone “di moda”: spesso sono scritti talmente male che l’editore si aspetta che sia tu a riscriverli in un italiano accettabile. È un lavoro che va bene per quei traduttori che si sentono scrittori mancati, non per una come me che non ha alcuna velleità autoriale se non quella di essere il più fedele possibile alle intenzioni originarie dell’autore. Ragion per cui, per onestà cerco di non
accettare incarichi di quel tipo. L’ho fatto quand’ero un’esordiente, ma ora cerco di evitarlo.
I libri che ho amato di più tradurre sono quelli con una lingua ricca e stimolante, e uno stile unico che ho dovuto riprodurre in italiano cercando risultati altrettanto creativi. Sono le fatiche più esaltanti per un traduttore. Esempi: l’ironia newyorkese di Sam Lipsyte (tre libri per minimum fax; presto mi metterò al lavoro sul quarto), l’avanguardia modernista di Tom McCarthy (tre romanzi tradotti, di cui l’ultimo, C, appena uscito per i tipi di Bompiani), le sperimentazioni linguistiche di Jon McGregor. Una delle sfide più interessanti è stata quella di rendere in italiano gli scritti del critico rock e gonzo journalist americano Lester Bangs, finora ritenuto intraducibile, che con la sua lingua pirotecnica e le sue recensioni originalissime ha dato forma al linguaggio della critica rock moderna. Non a caso, i suoi libri sono diventati dei long seller anche nella versione italiana.
G: Hai voglia di parlare della tua Agenzia Letteraria? Come funziona, che tipo di servizi offre?
AM: Per approfondimenti rimando al nostro sito, dove vengono esposti tutti i servizi dell’agenzia. Ho scelto di avere una presenza forte su internet e sui social network, contrariamente alle agenzie italiane vecchio stile, proprio per sottolineare il desiderio di lavorare in un modo diverso. La mia esperienza all’interno delle case editrici come editor e ufficio diritti mi ha fatto riflettere seriamente sugli aspetti di questa professione che secondo me si potevano migliorare: nel ventaglio di prestazioni che offriamo c’è un occhio di riguardo alla modernità, nella consapevolezza che non si può più lavorare nell’editoria ignorando i profondi cambiamenti apportati dal digitale, che non è “il nemico”, ma per esempio può offrire nuove possibilità per ridare vita ai libri che ora per problemi di distribuzione non trovano visibilità sugli scaffali.
Il servizio più innovativo dell’agenzia è l’assistenza nel percorso di auto-pubblicazione per gli autori che non vogliono più aspettare mesi prima di ricevere la risposta di un editore, con i tempi rallentati imposti dalla crisi del settore. Cominciano ora a uscire i primi e-book di cui abbiamo curato l’editing, offrendo agli autori quel servizio di filtro e di cura professionale che di solito si trova all’interno delle redazioni, e ottenendo così un prodotto finale sempre più simile a quelli proposti da una casa editrice, ma con modi più snelli e tempi più rapidi.
Non ci occupiamo solo di rappresentanza di autori italiani e stranieri, e di lettura e valutazione di manoscritti, ma offriamo anche servizi di editing per gli autori che vogliono rimaneggiare a fondo la propria opera con l’aiuto di un professionista, di fact checking e tutoraggio per chi ha bisogno di verifiche o di essere accompagnato passo passo nella stesura del proprio romanzo.
Offro anche i miei servizi di traduzione letteraria, ma non sono un’agenzia di traduzione, che è una cosa ben diversa: sono solo un’agente letteraria che è anche traduttrice, ma non smisto lavoro ad altri colleghi come fanno le agenzie.
G: Quest’anno andrai al Salone del Libro? Pensi che sia ancora un evento imperdibile?
AM: Ci andrò anche quest’anno come sempre da più di dieci anni a questa parte: è la manifestazione più importante d’Italia, che ogni anno si conferma tale.
Per chi lavora nell’editoria a tempo pieno è il luogo dove tutti gli specialisti del settore si incontrano per ben cinque giorni e dove si svolgono numerosi dibattiti sul mondo editoriale, tra cui anche gli appuntamenti dedicati ai traduttori con il format L’autore invisibile, di cui sarò ospite quest’anno.
Un particolare ignoto al grande pubblico ma molto importante per gli addetti ai lavori è che da qualche anno c’è una sezione a parte dedicata allo scambio di diritti, l’IBF, dove si svolgono incontri e trattative non-stop tra editori e agenti di tutto il mondo, come nelle grandi fiere internazionali. Quindi a livello di incontri e di aggiornamento professionale si tratta di un evento imperdibile.
Se dovessi ragionare come semplice lettrice, in confronto ad altre fiere Torino è sicuramente dedicata a un pubblico più ampio: si dà molto spazio agli autori o a star dello sport e della TV. Ha senso una visita per vedere gli stand degli editori più piccoli che hanno meno visibilità in libreria:
spesso sono presenti di persona allo stand e si può parlare di libri con loro. Gli stand dei grandi gruppi si presentano più come vetrine espositive di tutta la loro produzione, ma per avere un dialogo diverso con i lettori bisognerebbe forse offrire spazi più intimi e differenziati, meno simili alle librerie di catena.
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La chiacchierata è stata pubblicata sul blog http://grafemi.wordpress.com in due parti, il 6 e l’8 maggio 2013
Faccia a faccia con Anna Mioni, agente letterario e traduttrice
pubblicato l’11/2/2013 su Angolo Lettura a cura di Jessica Malfatto
“Ha iniziato a leggere molto presto e non ha più smesso, convinta che, se tutti scrivono libri, la missione della sua vita è quella di leggerli“: si presenta così Anna Mioni, agente letterario e traduttrice, che nel marzo 2012 ha fondato la AC² Literary Agency, in collaborazione con Stefano Scalich (responsabile di editing, valutazione di manoscritti, fact-checking e tutoraggio). Traduzioni, editing, scrittura, scouting, ufficio diritti e rappresentanza di editori e autori italiani e stranieri: sono queste nel complesso le competenze principali dell’agenzia, unite a “passione, efficienza, attenzione”, come si trova scritto nel loro profilo.
Ma cerchiamo di capire qual è stato il percorso che ha portato Anna Mioni a dare vita questa realtà editoriale e cosa significa essere un agente letterario oggi.
- Aprire un’agenzia letteraria: perché? Cosa vi ha spinti a intraprendere questo viaggio nell’editoria?
Il mio viaggio nell’editoria in realtà è iniziato quindici anni fa, quando dopo l’università frequentai il Master in Traduzione letteraria dall’inglese all’Università Ca’ Foscari, grazie al quale ottenni uno stage presso la redazione Franco Muzzio/Arcana edizioni, da cui nacque una collaborazione più lunga. In seguito ho scelto di privilegiare la carriera di traduttrice letteraria.
Quella dell’agenzia è un’idea nata quando nel 2006 e 2007 ho lavorato di nuovo come editor interna, stavolta nella casa editrice padovana Alet, occupandomi anche dell’ufficio diritti. Mi sono venute molte idee per migliorare il meccanismo abituale di rapporto tra editori e agenzie letterarie; ma in quegli anni non avrei potuto aprire un’agenzia, perché la maggior parte del lavoro si svolgeva ancora su carta e avrebbe implicato costi per me insostenibili. Ora che tutto lo scambio di manoscritti e la corrispondenza si gestiscono quasi solo via e-mail, ho potuto far partire il progetto AC² Literary Agency e provare a farvi confluire nel anche tutte le esperienze acquisite come traduttrice e redattrice, oltre alla mia idea di letteratura e di mercato editoriale virtuoso.
- Quali sono i lati migliori e quali i peggiori di questo mestiere? Cosa significa essere un agente letterario, oggi?
Inizio a rispondere dall’ultima domanda: la nostra è una professione molto recente che in Italia non è ancora regolamentata; fino a poco tempo fa le agenzie erano poche e lavoravano in modo invisibile ai non addetti ai lavori. Ora, con la crescente esternalizzazione di tutte le professioni editoriali, nelle redazioni ci sono sempre meno editor e redattori puri. Quindi sulle agenzie di oggi si è in parte spostata anche tutta una serie di compiti che prima erano appannaggio esclusivo delle redazioni: editing e selezione dei manoscritti, revisioni, traduzione, promozione online… Inoltre, la transizione verso l’editoria elettronica richiede di saper rispondere immediatamente a tutti i nuovi bisogni che questo nuovo mercato creerà per gli autori. Un agente serio si tiene aggiornato su tutti questi sviluppi e aiuta i propri autori a intraprendere percorsi personalizzati, anche diversi da quelli della pubblicazione tradizionale, se serve.
I lati migliori del lavoro di agenzia riguardano tutti il rapporto costante con l’oggetto della nostra passione: chi si accosta alle professioni editoriali lo fa perché ama i libri e la lettura. Inoltre c’è il piacere di accompagnare e sostenere gli autori nel loro percorso di crescita e sperando di riuscire a trovare per loro l’editore che riesca a valorizzarli al meglio.
I lati peggiori sono: la lentezza nel ricevere risposte da parte degli editori, che sono sovraccarichi di lavoro e reagiscono velocemente solo a proposte di libri che hanno già venduto nei paesi d’origine, oppure che toccano temi di attualità stringente; e la delicatezza estrema necessaria per trattare qualcosa di personale come l’opera letteraria di un autore, che spesso la vede alla stregua di un figlio e quindi non sempre riesce a giudicarla con obiettività.
- Parliamo anche di numeri e statistiche, per dare un’idea concreta ai nostri lettori. Su cento manoscritti
ricevuti, quanti riescono a “passare la selezione”? Quali sono gli errori più comuni che commettono gli aspiranti esordienti?
Mi è difficile fornire cifre, prima di tutto perché l’agenzia è nata a marzo 2012, e poi perché abbiamo criteri di selezione piuttosto severi: non accettiamo manoscritti su carta, non valutiamo manoscritti a titolo gratuito, e cerchiamo di occuparci solo di titoli che non si discostano troppo dalla nostra idea di letteratura di qualità. Quindi non siamo sommersi di testi, e quelli che leggiamo, in gran parte, sono già scremati in partenza.
Tra gli errori più comuni che commettono gli esordienti, a detta non solo mia ma anche di altri agenti ed editor:
1) Non avere solide letture alle spalle: come si fa a scrivere bene se non si sono letti i capolavori della letteratura italiana e straniera, contemporanea e non?
2) Non capire la differenza tra scrivere solo per sé (che spesso sconfina con la logorrea) e scrivere per un pubblico. Se non si fa quel salto di qualità non si diventerà mai un vero scrittore.
3) Ignorare i pareri critici. Ci sono esordienti che fanno il giro di tutte le agenzie e incassano rifiuti su rifiuti, ma, anziché mettersi in discussione e provare a capire perché il loro testo non funziona, continuano a sottoporlo in visione nella speranza di sentirsi dare un giudizio positivo. Inutile dire che non accadrà mai: se un professionista del settore critica il testo di un esordiente, lo fa nell’interesse dell’autore e ha dei motivi ben fondati che nascono dalla sua competenza professionale. Quindi per fare progressi conviene metabolizzare le critiche e usarle per crescere come scrittori.
- Se si trovasse di fronte un ragazzo con l’ambizione di aprire un’agenzia letteraria, cosa gli direbbe?
Gli direi che deve farsi le ossa e acquisire esperienza. Nessuno apre un’agenzia letteraria da zero, tutti provengono dalle redazioni di case editrici o da lunghe esperienze come dipendenti in agenzie già consolidate. Quindi consiglierei di seguire un corso di studi che prepara a dovere sul mondo dell’editoria (ci sono vari master e corsi di perfezionamento post-universitari molto specializzati, dato che l’università italiana è ancora piuttosto slegata dal mondo dell’editoria vera e propria) e poi cercare di fare esperienza presso un’agenzia letteraria, se possibile internazionale, in modo da prepararsi a 360°. Oppure nell’ufficio diritti di una casa editrice.
- E, infine, quale azione potrebbe essere veramente concreta per promuovere la lettura, sia da parte dei singoli lettori, sia per quanto riguarda gli “addetti ai lavori”?
Bisogna allevare i ragazzi ad amare i libri sin da piccoli, sia in famiglia che a scuola. In questo ambito in Italia ci sono già vari progetti che meritano di essere sostenuti, tra cui Nati per leggere, La grande fabbrica delle parole e quello a cui partecipo anch’io, Scuola Twain, dove molti scrittori, sceneggiatori, attori e altre figure legate alla narrazione tengono volontariamente lezioni sul piacere di leggere nelle scuole medie e superiori (per ora del Veneto, ma il progetto verrà presto allargato ad altre regioni). Proprio questa settimana andrò a parlare in un liceo linguistico dell’amicizia, l’amore, la musica e la libertà partendo da Sulla strada di Jack Kerouac, cercando così di far toccare con mano ai ragazzi che i temi della loro quotidianità trovano ampio spazio nella letteratura.
L’avvento dell’editoria digitale e le sue possibili ripercussioni sul lavoro dei traduttori (da Strade Magazine)
uscito in origine su Strade Magazine / / rubrica Gomma e matita, Numero 2
Anna Mioni ci parla delle sue idee sul futuro della traduzione nell’era dell’editoria digitale. Le case editrici riusciranno a far fronte ai rapidissimi mutamenti? E soprattutto, il futuro digitale si prospetta per noi traduttori roseo o allarmante?
È un momento di cambiamenti epocali per l’editoria, in Italia e nel mondo.
Negli Stati Uniti l’e-book è già una realtà consolidata; è di questi giorni la notizia che anche in Inghilterra, in alcuni negozi su internet, la vendita di libri elettronici ha superato quella di libri su carta. E sempre più spesso libri autopubblicati dagli autori, senza passare per un editore, raggiungono la vetta delle classifiche, per poi essere “consacrati” dalla pubblicazione anche su carta (emblematico il caso delle Cinquanta sfumature di cattiva letteratura che funestano le classifiche estive).
Intanto, cerchiamo di ragionare sui tempi: al momento qui da noi il libro digitale si attesta su percentuali intorno al 2%; si può prevedere che raggiungerà dimensioni di massa solo tra cinque o dieci anni al massimo, intorno al 20%. Nemmeno gli esperti si azzardano a dare cifre più precise. Si può solo tenersi informati e prepararsi ad affrontare i cambiamenti. C’è ancora il problema della mancanza di un formato e di un supporto prevalente (come è stato il CD rispetto al DAT o al MiniDisc, per esempio), che ne ostacola la diffusione capillare.
Gli editori italiani hanno un approccio ambiguo a questa rivoluzione. In generale, l’impressione è che la grande editoria si divida tra il terrore davanti all’ignoto (di recente Cavallero, direttore generale di Mondadori, ha commentato qui: “Niente sarà più come prima. (…) Nessuno ha la più pallida idea di quello che accadrà tra pochi anni”) e i tentativi di saltare sul carro del vincitore, inglobando a posteriori l’energia espressa dagli autori che si autopromuovono, e creando ex novo collane di e-book e community di autori autopubblicati. Questi ultimi tentativi mi lasciano sinceramente perplessa, e non credo siano destinati al successo: in rete non funzionano le comunità artificiali imposte dall’alto. Il pubblico degli internauti è anarchico e imprevedibile, sceglie dal basso quello che ama e lo fa assurgere alla popolarità per passaparola.
Negli ultimi due anni per fortuna anche in Italia è cominciata la riflessione sull’editoria digitale e il self-publishing, grazie a convegni interessanti come IfBookThen (con molti ospiti internazionali), Bye Bye Book? o Librinnovando.
La prima conseguenza ovvia, e positiva, è che il self-publishing sta uccidendo l’editoria a pagamento (la cosiddetta vanity press); gli aspiranti autori che non vogliono sottostare al giudizio di agenti ed editori possono autopubblicarsi direttamente, senza essere vittime di sfruttatori senza scrupoli. Questo libera spazi in libreria per i libri cartacei di qualità.
Una delle tesi emerse con più insistenza a IfBookThen è che il mondo dell’editoria cartacea sta vivendo un cambiamento analogo a quello che si è verificato nell’industria musicale con l’avvento della musica liquida (mp3 ecc.) e del file sharing, ma il rischio è quello di non imparare nulla dall’esperienza dell’industria musicale: tutti i grandi editori infatti stanno ripetendo gli stessi errori fatti dalle major della musica a suo tempo. Per esempio, quello di considerare i pirati digitali come il nemico numero uno, invece di abbassare i prezzi dei supporti. Le statistiche dimostrano che non è la pirateria digitale il nemico da combattere: spesso, anzi, aiuta a vendere più copie. Per fortuna, già molti editori si stanno ricredendo e presto le protezioni DRM (che irritano chi ha legittimamente pagato il libro, e vengono aggirate con facilità dagli hacker) verranno tolte dagli e-book.
La reazione di terrore di molti editori deriva dal timore che il libro elettronico, oltre a mutare irreversibilmente la filiera del libro così come la conosciamo, uccida il mercato librario e l’editoria. Come sintetizza con efficacia Giuseppe Granieri, Il fatto che le tecnologie digitali abilitino la pubblicazione e la distribuzione con un solo click significa che oggi «buona parte dell’innovazione che riguarda la creazione, la diffusione e il consumo di testi viene da “fuori”, non arriva più dagli editori». Continuano a essere necessarie tutte le professionalità che girano intorno ai libri e al giornalismo. Qui si parla di ipotesi per il futuro, ovviamente, ma nei prossimi anni il ruolo di filtro e cernita svolto oggi dall’editore rischia di essere sempre meno preponderante, e di spostarsi altrove (le agenzie letterarie, le comunità online di lettori, i blog, la stampa in rete).
Io ho già scritto in altre sedi che secondo me il libro elettronico ha molte potenzialità positive: per esempio potrebbe correggere alcune storture del mercato editoriale odierno, ridando slancio all’editoria di qualità e di catalogo. Lo dimostra anche l’iniziativa recente dei nostri colleghi Dragomanni, che pubblicano in e-book proprie traduzioni di classici moderni.
Ma veniamo a quello che ci riguarda più da vicino: cosa può cambiare per i traduttori in questo mercato in evoluzione?
Per esempio, il digitale può eliminare l’intermediario editoriale tra autore e traduttore: potremmo trovarci a lavorare direttamente per un autore, che però dispone di meno fondi da investire, non essendo una realtà industriale; e quindi, potrebbe capitarci di dover condividere il rischio imprenditoriale dell’autore, accettando che parte del nostro compenso sia la percentuale sulle copie vendute. Un’arma a doppio taglio, come già sappiamo, specie in un mercato editoriale piccolo come quello italiano. Inoltre, questo presume che il traduttore debba sviluppare la capacità di trovarsi clienti in un mercato più vasto, acquisendo tutta una serie di competenze che finora erano più connaturate alla traduzione tecnica che a quella editoriale (autopromozione, ricerca di clienti online, gestione di clientela internazionale con pagamenti in valuta estera, ecc.), o appannaggio specifico di uffici diritti e agenti letterari (gestione e acquisto di diritti di traduzione internazionali). Oppure, come il caso già citato dei Dragomanni, è il traduttore a farsi editore in prima persona.
Si tratta di situazioni ancora del tutto in fieri, quindi non si può prevedere con esattezza come si evolveranno. Per chi di noi vuole restare competitivo nei prossimi anni, però, può essere strategico cominciare a investire sulla formazione in questi ambiti.
Il fiorire del libro elettronico in Italia potrebbe generare (io lo auspico) una nuova serie di ritraduzioni di classici antichi e moderni da parte degli editori, creando così nuove possibilità di lavoro. Potrebbe anche aumentare la quantità di pubblicazioni “coraggiose”: uscire solo in formato elettronico riduce fortemente i costi di stampa e distribuzione, quindi l’editore può usare l’e-book come prima palestra di lancio prima di accollarsi il rischio di una tiratura su carta; esperimento già iniziato da Rizzoli First, per esempio. Se usata in maniera virtuosa, questa strategia potrebbe dare spazio a molta narrativa di qualità che al momento resta ferma per timore di insuccessi di vendite; penso anche alle letterature di lingue non veicolari, che in quest’epoca di crisi sono penalizzate a favore di quelle più sicure dal punto di vista commerciale.
Però gli e-book si vendono a prezzi più bassi e fruttano all’editore ricavi ridotti: a fronte di una percentuale dell’8-10% sul cartaceo, per i diritti elettronici l’autore trattiene il 25%. Quindi potrebbero diminuire i fondi a disposizione per pagare chi traduce, anche se in realtà l’assenza di spese vive per la stampa e i minori costi di distribuzione sbloccano gli importi che prima si investivano in quel ramo. Anche qui il settore è in evoluzione e non ci sono ancora delle prassi consolidate; certo, i traduttori dovranno saper negoziare contratti vantaggiosi anche per i diritti elettronici.
Insomma, dobbiamo rassegnarci a un futuro di lavoro meno pagato? Lo scopriremo solo vivendo, dice il saggio, o più seriamente possiamo sperare che un mercato più fluido e democratico generi un flusso di utili maggiore, e che la diminuzione di altri costi possa dirottare questi utili anche su una retribuzione migliore per i traduttori.
foto di Malta Bastarda
Anna Mioni, dalla traduzione al mestiere di agente letterario. “L’editoria attuale soffre di pigrizia; vincerà chi saprà essere flessibile e andare incontro alle nuove sfide digitali”.
intervista già pubblicata il 12 settembre 2012 su Bibliocartina.it
Alla ricerca di approfondimenti e nuovi punti di vista sul mercato del libro e i suoi mestieri, oggi Bibliocartina.it intervista Anna Mioni, protagonista del mondo letterario italiano da quasi 15 anni, nota traduttrice letteraria segnalata due volte (2008 e 2009) al prestigioso Premio Monselice per la traduzione, e da qualche mese anche titolare dell’agenzia letteraria internazionale AC²Agency.
Cominciamo traendo spunto da un articolo di qualche giorno fa. Il quotidiano Repubblica ha recentemente pubblicato un’intervista a Jonathan Safran Foer in cui l’autore, criticando una deriva patriottica in atto secondo lui negli USA “che somiglia alla xenofobia”, fa riferimento anche alle traduzioni dei libri, che in America costituiscono (sono le cifre fornite da Foer stesso) circa il 3% dei libri pubblicati, a fronte di una percentuale di libri tradotti in Europa che andrebbe dal 30 al 45%. Secondo Foer questo significa che gli Stati Uniti stanno rinunciando al “dialogo col mondo”. Qual è, in merito, la tua opinione di traduttrice letteraria dall’inglese e di agente letterario internazionale?
Proprio l’anno scorso ho avuto modo di recarmi negli Stati Uniti con una borsa di studio. Ho incontrato vari editor, alcuni dei quali si occupano di collane di testi in traduzione, e ho sentito discorsi simili a quelli di Safran Foer. Pare che i lettori americani non siano interessati ad altri mondi che non siano il loro, e fatichino ad accostarsi a testi ambientati in contesti che non gli sono famigliari: non gli interessa nemmeno conoscerli, a meno che non si tratti di esotismi oleografici che confermano i loro stereotipi. Quindi, gli editori che vogliono fare editoria di ricerca traducendo da altre lingue spesso sono costretti ad appoggiarsi a finanziamenti universitari o a donazioni. È più facile che si pubblichi un autore straniero che ha vinto un premio o è campione di incassi, ma non è affatto scontato. Spesso persino gli scrittori inglesi faticano a diffondere i propri testi in America. Ma può darsi che questo stato di cose non duri a lungo: il predominio economico e culturale degli Stati Uniti cede il passo rispetto a quello dell’Asia; bisogna vedere se quest’ultima saprà proporre un modello forte anche dal punto di vista culturale, che soppianti il colonialismo americano subìto dal resto del mondo nel dopoguerra.
Non è possibile, dunque, che la realtà per quanto riguarda l’Europa sia ben più prosaica, e che tanti libri tradotti che vengono dagli Stati Uniti siano spesso selezionati secondo criteri puramente commerciali piuttosto che di effettivo interesse letterario, e spesso sull’onda del marketing letterario invece che di tendenze culturali indipendenti?
Per quanto riguarda il mercato italiano, spesso si compra e si fa tradurre ciò che è americano a scatola chiusa, per pura esterofilia, e per la presunzione che una storia possa vendere meglio e risultare più appetibile per il solo fatto che è straniera. Si arriva al paradosso, nella narrativa di genere, di far firmare con pseudonimi anglicizzanti scrittori che in realtà sono italianissimi. C’è una certa pigrizia di fondo della filiera editoriale, per cui quello che non passa tra le sue maglie rimane escluso dal processo di selezione, senza che necessariamente sia peggiore. Bisognerebbe ritrovare un po’ di spirito critico, e soprattutto leggere i libri prima di proporli al pubblico, invece di affidarsi solo al tam tam degli addetti ai lavori.
Quali credi che siano in generale le regole sottostanti al mercato della narrativa estera in Italia? Credi per esempio che copra generi poco usuali per gli scrittori italiani, o sono altri i motivi per cui in Italia si tende a dare molto peso alla narrativa estera?
Intanto voglio far rilevare che negli ultimi anni è molto cresciuta l’importanza della narrativa italiana, a livelli che fino a dieci anni fa erano impensabili; però secondo me dipende semplicemente dal fatto che pubblicare e promuovere uno scrittore italiano per gli editori ha dei costi molto più contenuti, e purtroppo non è dovuto a motivi più nobili (altre riflessioni interessanti sul turn-over degli esordienti si trovano per esempio nel pezzo di Ida Bozzi recentemente pubblicato sull’inserto La Lettura del Corriere della Sera). Fino a una decina d’anni fa, invece, la narrativa straniera predominava su tutto, per una combinazione di provincialismo, di sudditanza culturale, e forse anche per l’eccessiva litigiosità delle varie conventicole delle lettere nazionali.
Non credo ci siano regole sottostanti al mercato della narrativa estera in Italia, o meglio, sono le stesse che valgono per tutto il mondo editoriale moderno: ci sono i piccoli editori che fanno un lavoro di scouting secondo i propri gusti e i propri ideali, mentre gli editori commerciali sono più attenti a fiutare le tendenze globali per cercare di cavalcarle. Spesso e volentieri si importano acriticamente i successi esteri, convinti che debbano per forza replicare il loro successo da noi in patria, cosa non assolutamente scontata, date le differenze culturali di fondo che per fortuna ci sono ancora.
Ritieni che il ‘marketing di ritorno’ di cui opere tradotte possono godere in Italia abbia un peso nella scelta di acquisizione di un titolo? Sempre più, fra l’altro, i tempi per le traduzioni nelle case editrici si accorciano proprio per esigenze relative al calendario d’uscita, è il caso per esempio dei romanzi di Ken Follett che vengono fatti uscire in Italia in contemporanea con l’estero, o degli stessi romanzi della saga di Twilight o di altri, tradotti da squadre di traduttori, con tutto il rischio che ciò comporta in termini di stile, per accorciare i tempi. Usufruire di una sorta di campagna di marketing internazionale comune, risparmiando quindi fatica e risorse per una più mirata in Italia, secondo te è una scelta felice per gli editori italiani?
Non so nemmeno se è una scelta. Credo che ormai il mercato globalizzato contempli solo una possibile scelta, starne dentro o starne fuori. Per gli editori sarebbe un suicidio commerciale non approfittare del traino di grossi eventi promozionali (film, tournée, lanci internazionali) legati a un libro, e quindi si adeguano al sistema ormai consolidato in quasi tutto il mondo. Purtroppo questo implica, come sottolinei giustamente, il forzato ricorso a metodi di lavoro che non permettono di dedicare a un testo le dovute attenzioni in fase di traduzione e revisione. Si spera che gli editori ne comprendano l’importanza e si ricredano.
Che opinione hai, in generale, del marketing del libro? Marino Buzzi da noi intervistato qualche giorno fa ha espresso un’opinione molto critica a riguardo.
Ho scritto da poco un articolo molto dettagliato su Agorà, il blog di Scuola Twain dove avanzo anche delle proposte di soluzione per la crisi del mercato editoriale, oltre a tentare di identificarne alcune delle cause. Inutile dire che la mia analisi coincide in molti punti con quella di Buzzi.
Recentemente sei diventata un agente letterario internazionale. Puoi spiegarci brevemente in cosa consiste questo mestiere e le ragioni della tua scelta?
L’agente letterario rappresenta gli interessi degli autori presso gli editori, sia dal punto di vista contrattuale (cercando di stipulare il contratto più vantaggioso possibile e occupandosi degli aspetti amministrativi del rapporto) che da quello promozionale (cercando una casa editrice per l’autore, in Italia e all’estero). Ci sono agenti che lavorano esclusivamente a piazzare autori italiani in Italia, e altri come me che inoltre rappresentano in Italia agenzie e clienti esteri, e i propri autori all’estero, autonomamente o con l’aiuto di altri co-agenti. È una professione molto recente che in Italia non è ancora regolamentata; fino a poco tempo fa le agenzie erano poche e lavoravano in modo invisibile ai non addetti ai lavori.
È un’idea nata quando nel 2006 e 2007 ho lavorato come editor interna nella casa editrice padovana Alet, occupandomi anche dell’ufficio diritti. Ho seguito da vicino la parte gestionale dei diritti del libro e i colloqui con le agenzie straniere alle fiere italiane ed estere. Nel farlo ho notato che il meccanismo consueto di rapporto tra agenzie letterarie ed editori si poteva migliorare in vari punti; ma allora aprire un’agenzia per lavorare in modo diverso dalle agenzie tradizionali non sarebbe stato possibile, perché a quei tempi la maggior parte del lavoro si svolgeva su carta e aveva costi per me insostenibili. Ora che i manoscritti si scambiano solo via e-mail, è stato possibile far partire il progetto AC² Literary Agency e provare a mettere nel lavoro di agente anche tutte le esperienze acquisite come traduttrice e redattrice interna, oltre alla mia idea di letteratura e di mercato editoriale virtuoso. Inoltre, in un periodo di cambiamento come quello attuale, la transizione verso l’editoria elettronica è fonte continua di nuovi stimoli e rappresenta una sfida per chi vuole essere in grado di rispondere immediatamente a tutti i nuovi bisogni che questo nuovo mercato creerà per gli autori.
Pochi giorni fa, Antonio Tombolini fondatore della piattaforma di pubblicazione di ebook Simplicissimus Book Farm ha pubblicato sul suo blog una serie di considerazioni sui cambiamenti in corso nell’editoria italiana, data piuttosto per spacciata dall’editore nella sua forma tradizionale. Il cambiamento, la novità, a quanto sembra risiedono nella forma del libro elettronico e nell’affermazione che sta sperimentando in Italia, a fronte di un crollo del mercato librario tradizionale. Fra le altre cose, Tombolini sembra elogiare indirettamente la tua scelta di aprire un’agenzia letteraria, sostenendo che sia un ottimo momento per questo tipo di attività, purché non ci si attacchi alle vecchie abitudini ma si possiedano capacità intuitive e dimestichezza con i numeri. Che cosa ne pensi?
L’articolo di Antonio Tombolini di Simplicissimus Book Farm mi conferma alcune intuizioni di lungo corso che fa piacere ritrovare nel discorso di uno dei più grossi esperti di editoria elettronica in Italia. Lo scenario sta cambiando, l’editoria tradizionale non sarà più la stessa e chi non è pronto ad affrontare il suo nuovo assetto in modo flessibile e moderno non riuscirà più a restare sul mercato. In compenso, per chi è agile e duttile si prospettano nuovi scenari molto interessanti. Credo che nel giro di pochi anni il panorama editoriale italiano sarà cambiato enormemente. Il successo di vendita degli ebook quest’estate ne è la prova.
Anomalie della filiera editoriale che aggravano la crisi del libro (con alcune proposte di soluzione)
Anomalie della filiera editoriale che aggravano la crisi del libro (con alcune proposte di soluzione) – di Anna Mioni.
[articolo uscito il 17 luglio sul blog di Scuola Twain e citato su La Lettura del Corriere della Sera]
Qualche settimana fa Giulio Mozzi sul suo blog ha annunciato che il suo libro Sono l’ultimo a scendere sarebbe andato presto al macero, dopo 3 anni dall’uscita. «Credo che il libro non abbia fatto più di 4.000 copie (sto aspettando i resoconti del 2011). Non sono molte. Non sono abbastanza per tenerlo in magazzino, né abbastanza per metterlo negli Oscar», precisava.
Prima considerazione: 4.000 copie, per le cifre dell’editoria italiana di oggi, sono già un successo. La seconda considerazione mi porta invece su un problema della filiera editoriale poco noto ai non addetti ai lavori: la distribuzione, di certo fondamentale per diffondere i libri al pubblico ma, altrettanto di certo, gestita con criteri che fanno sempre più pensare a un marketing miope. Le conseguenze immediate di queste strategie di mercato sono prima di tutto due:
• Si sta desertificando l’editoria di catalogo (i cosiddetti classici e i “long seller”).
• Si sta accorciando l’aspettativa di vita di un libro.
Avete provato a chiedere in libreria un libro uscito più di tre mesi fa? Vi sentirete dire che è esaurito, che bisogna ordinarlo, che la libreria non “tiene” quell’editore. E questo vale anche per i classici indiscussi, che dovrebbero essere reperibili in più versioni diverse.
Ormai i libri vengono tolti dagli scaffali prima ancora che ci sia il tempo di innescare il passaparola tra lettori, le recensioni positive e le discussioni on/offline: è questo il famoso “circolo virtuoso” che porta a un autentico aumento di pubblico, dunque di vendite. Che spesso vengono sacrificate alla velocità, in nome della quale molte recensioni escono sulla stampa una settimana prima del libro, una prassi che genera una catena di fatti assurda e da noi sperimentata più volte:
Leggi la recensione (che spesso è una semplice copia della velina dell’ufficio stampa); ti incuriosisci; corri in libreria; ti dicono che il libro non è ancora arrivato, quindi… rischi di rinunciare all’acquisto.
Gli editori hanno mai preso in considerazione il calo di vendite collegato a questa bizzarra usanza? Perché non ridurre la crisi delle vendite iniziando a intervenire sulla tempistica delle recensioni?
Il libro viene stampato sulla base delle copie prenotate in libreria dai rappresentanti che lo hanno proposto ai librai qualche mese prima; se l’editore non le ritiene sufficienti a garantire un profitto immediato, magari il libro rischia di non uscire: questo spiega le miriadi di testi stranieri acquistati, tradotti e poi lasciati a prendere polvere nelle redazioni dei grandi editori senza mai vedere la luce. Quindi la catena (di montaggio?) dell’editoria somiglia tanto a un cane che si morde la coda: una casa editrice deve produrre il maggior numero di libri possibili, così coprirà le perdite dei mesi precedenti con le entrate dei mesi successivi e aumenterà i fatturati che le permetteranno di chiedere finanziamenti alle banche.
Nasce un sospetto: forse gli editori badano soltanto alle previsioni sul venduto ma… quanto puntano, ancora e nel concreto, sulla pura e semplice qualità di un libro? È come rinunciare a uscire di casa perché l’oroscopo di quel giorno è sfavorevole, indipendentemente dagli impegni che ci attendono.
E allora come si aiutano i “buoni libri” a trovarsi un pubblico? Si cominci da questa semplice regola: dategli tempo. Ecco perché sostengo anch’io la proposta di ridurre la produzione di libri per salvare il mercato editoriale. Il motivo è altrettanto semplice: non possiamo prevedere scientificamente quanti mesi servono a un libro per raggiungere il suo pubblico… logica vorrebbe che restasse in libreria fino a missione compiuta. Ma il mondo reale è un po’ diverso: siamo tutti travolti dalle novità, come osserva giustamente Michele Rossi, editor Rizzoli: «Il mercato chiede novità perché non sa più gestire i percorsi d’autore di medio e lungo periodo».
Vogliamo salvare l’editoria dalla crisi? Iniziamo a investire sulla professionalità. Basterebbe tornare a imparare dai vecchi editor che amavano i libri e ne accompagnavano gli autori in ogni singola fase della carriera (due nomi su tutti: Italo Calvino e Grazia Cherchi). Nelle case editrici, più o meno grandi, gli specialisti di editoria dovrebbero contare almeno quanto le figure “prettamente manageriali”: perché sono quasi sempre gli “editoriali” ad avere il fiuto decisivo per i libri; “quelli del marketing” usano con notevole profitto i cinque sensi… peccato che il prodotto editoriale ne ha spesso sei.
Volete conoscere un’altra anomalia del mercato italiano? Cercatela su Minima & Moralia, dove Marco Cassini di minimum fax, intervistato da Loredana Lipperini di Fahrenheit, fa notare quanti “pochi soggetti” posseggano tutta la filiera del libro. «I principali distributori sono anche i principali gruppi editoriali e le principali catene librarie. Un qualunque editore non sa mai se il soggetto che sta lavorando per lui è, in quel momento, il suo distributore, l’editore concorrente o il libraio».
E se volete scoprire uno dei segreti di Pulcinella dell’editoria italiana, reggetevi forte: gli editori possono acquistare gli spazi espositivi nelle librerie di catena. Lo conferma sempre Cassini: «Il lettore meno avveduto non sa se quei libri sono in vetrina o in posizione strategica perché il libraio ci crede, e quel modo di proporli fa parte di un progetto culturale, o perché qualcuno ha comprato lo spazio».
La situazione ricorda un po’ la metà oscura della Luna: il libraio indipendente sceglie e dà visibilità ai testi per lui più validi, le pile che troviamo esposte nei megastore discendono da pura e semplice strategia “a monte”. Qualcuno ha già scelto per noi: e questo ci potrebbe anche stare, se il Qualcuno fosse il libraio, ma qui il punto è che Qualcuno ha scelto anche prima del libraio.
Il che ci porta all’analisi di Paolo Deganutti, affidata a una recente quanto lucidissima lettera aperta: «Questa non è libera concorrenza ma abuso di posizione dominante. Quella dei Grandi Gruppi Editoriali che controllano tutta la filiera ed il mercato […] provoca una drammatica distorsione della concorrenza a discapito degli indipendenti e dei lettori, oltre a pregiudicare il pluralismo in un settore delicatissimo e strategico […] La cosa più stupida che potevamo fare […] era di sacrificare i lettori forti sull’altare del Dio Marketing. Bisogna semplificare le librerie, ci hanno detto, e allora via con i percorsi tematici. Togliamo pure la disposizione in ordine di casa editrice e il settore dei classici, mettiamo tutto in ordine di autore che tanto poi il cliente il libro non lo trova lo stesso e non trova nemmeno più il libraio, a dire il vero, perché non c’è più».
Il Lettore penserà che peggio di così non si può. E invece ci sono casi in cui certe grandi librerie non ordinano le novità dei piccoli editori e poi fanno finta che il libro sia introvabile: così il potenziale cliente può acquistarne un altro già presente in negozio: lo spiega bene qui Antonio Paolacci. Morale? Il lavoro di ricerca di talenti dei piccoli editori rischia di cadere nel nulla, davanti all’impossibilità di raggiungere i lettori se non tramite internet.
Dove cercare una soluzione? Lo sviluppo degli e-book apre qualche spiraglio. Un’applicazione dell’e-book in questo senso è l’editoria di catalogo: se le case editrici vorranno digitalizzare tutte le vecchie uscite, la reperibilità tornerà costante; quanto ai piccoli editori, se il libro elettronico giocherà ad armi pari con quello di carta, anche il problema di raggiungere il pubblico e la competizione con gli editori più grandi saranno meno irrealistici per chi è indie.
Ma bisogna anche razionalizzare la produzione e valorizzare le professionalità specifiche dell’editoria presa nel suo complesso, ovvero la famosa filiera:
• Agenti letterari che sanno scovare e coltivare talenti.
• Editor che sanno scegliere bei libri.
• Uffici stampa e promotori che sanno valorizzarli tutti (e non solo il “libro di punta”, che cambia da una stagione all’altra).
• Giornalisti che scrivono recensioni pertinenti (compito una volta riservato ai soli critici letterari).
Dimenticato niente? Sì, i due elementi-chiave che ci potrebbero davvero salvare dalla crisi: qualità e attenzione ai dettagli. Il primo riguarda chi si impegna a creare il prodotto-libro, mentre il secondo riguarda chi quel prodotto lo prende in considerazione: e cioè tu, caro Lettore.
Bilancio del convegno “Bye Bye Book?” e interventi dei relatori disponibili online
L’interessante convegno “Bye Bye Book?” tenutosi a Empoli sabato 24 marzo, ha visto anche la partecipazione come relatrice di Anna Mioni della nostra Agenzia.
Durante il convegno chi non era presente ha potuto seguire grazie a Twitter (i tweet più notevoli sono stati raccolti da Marta Traverso in questo Storify) e alla diretta video in streaming. Ora sono disponibili anche le slide degli interventi dei relatori, e arrivano vari resoconti della manifestazione, a partire da quello di eFFe di Self Publishing Lab, uno degli organizzatori. Tra le sue conclusioni ci piace citare questa:
“La giornata empolese ha chiaramente dimostrato come la discussione sul futuro dei libri e dell’editoria funziona e progredisce quando vi è il confronto – diretto, sincero, e, perché no, anche aspro – tra punti di vista diversi, a condizione che tutti gli interlocutori condividano una concezione etica del lavoro culturale che gira intorno ai libri”.
L’etica professionale è un argomento che sta molto a cuore ad AC² e ne riparleremo presto su queste pagine. Osservazioni interessanti anche da Carmine Aceto che, tra le altre cose, commenta:
“Tra i tanti interventi che hanno amplificato questa visione a 360 gradi del self publishing, segnalo quello di Anna Mioni dell’agenzia letteraria AC² Literary Agency che, senza troppi fronzoli e andando decisamente a centrare il problema, ha scoperchiato il vaso di Pandora del sistema produttivo classico, mettendone in luce pecche e interessi ben poco culturali”.
L’esperienza del convegno non può certo considerarsi conclusa, dato che segna l’inizio di una riflessione continua sul self-publishing, e l’atto fondativo di una Scuola di self-publishing, la Renato Fucini Self-Publishing Academy.
Presentato il rapporto “L’Italia dei libri”: ci si sofferma poco sui nuovi fenomeni
Su Affari Italiani e su Il Tropico del libro oggi si può scaricare il rapporto “L’Italia dei libri – Un anno, le stagioni, due trimestri a confronto” del presidente del Centro per il libro e la lettura, Gian Arturo Ferrari.
Come al solito, il rapporto snocciola cifre catastrofiste senza analizzarle in maniera costruttiva.
Gli acquirenti sono scesi a 15,3 milioni (-10%), in media ogni acquirente ha speso 30,69 € ( -11%), e in totale la spesa complessiva è scesa a 471 milioni di € (-20%).
Gli acquisti su internet decollano meno del previsto (solo il 9%), aumenta la vendita di libri di autori italiani, ma poi i lettori dichiarano di leggere più o meno la metà di italiani e la metà di stranieri.
Tanto per cominciare, nella slide a pag. 18 troviamo la risposta al mistero balzato alla ribalta sui giornali qualche tempo fa “Persi 700.000 lettori”, dati riferiti a un’analisi condotta solo sul libro di carta.
Eccola, la risposta: su una base di popolazione sopra i 14 anni, 567.000 persone dichiarano di avere acquistato un e-book, e 1 milione e 100 mila di averlo letto. Facciamo la media tra le due, e otteniamo i famosi 700.000 lettori fantasma per cui ci si erano stracciate le vesti.
Conclusione, piuttosto logica: i lettori forti stanno passando in massa all’e-book.
Meglio che gli editori italiani si facciano trovare preparati.
Peccato che, in tutto il dossier, quella sia l’unica pagina in cui compare la parola “e-book”.
Tra i due articoli, quello del Tropico del Libro mette il dito sulla piaga dell’inerzia istituzionale. Letture consigliate entrambe, ma, come giustamente scrive TdL, meglio guardare i dati per farsi un proprio giudizio.
Gli editori pubblicano i libri senza leggerli… tanto vale autopubblicarsi, dice Alcide Pierantozzi
Alcide Pierantozzi, scrittore ora in libreria con “Ivan il terribile” (Rizzoli), su Affari Italiani prende una posizione originale sul self-publishing. Secondo lui la differenza tra self-publishing e editoria tradizionale non è poi molta, dato che l’editoria ormai è schiava delle logiche di mercato. “La persona dell’Editore, cui l’editor si rivolge quando ha selezionato un manoscritto, non legge praticamente mai il testo in questione e lo dà alle stampe sulla fiducia. Perciò, se l’editor non è un vero intellettuale (anche laddove l’editore per il quale lavora lo fosse), non capisco dov’è la differenza di qualità tra un testo auto-pubblicato e un testo uscito per una “vera” casa editrice. Esiste solo una differenza superficiale di marchio e di distribuzione tra i due prodotti.” Pierantozzi mette molto bene il dito sulla piaga quanto allo stato disastroso dell’editoria nel nostro paese, dove la rincorsa al successo nelle vendite, per quanto riguarda i grandi gruppi editoriali, passa sopra a qualsiasi cura e rispetto per gli autori e i testi. “È inutile raccontarsi frottole, è sotto gli occhi di tutti il disastro culturale in cui si è gettata l’editoria italiana (e non è un problema di copie vendute, visto che in Italia i libri riscuotono successo molto più che altrove). L’ossessione del venduto ha lesionato il cervello di quasi tutti gli addetti ai lavori ed è comprensibile, visto che se gli editor fanno scelte sbagliate sul piano commerciale vengono espulsi dai “piani alti” e devono cambiare mestiere. Solo qualche anno fa sembrava che tutta la comunità letteraria dovesse opporsi in prima persona contro questo sistema, ma ad oggi è l’editor stesso ad aver introitato al punto questo principio di mercificazione del libro da non riuscire più a liberarsene, pena la morte del proprio potere.” E quindi, a chi può rivolgersi un autore per ricevere le cure e le attenzioni che una volta gli venivano tributate dall’editor e dalla redazione? In futuro, prevedo che saranno sempre più gli agenti letterari a svolgere questo ruolo. Anche Pierantozzi propone due soluzioni: “mi pare che stia succedendo qualcosa di orribile al quale bisogna rispondere in due modi. Uno, riconsegnando l’editoria nelle mani dei grandi intellettuali ‘laureati’; due, eliminando in modo drastico e naturale chi dimostra di non saper fare questo lavoro – che è un lavoro sacro”.
Nasce una nuova agenzia letteraria internazionale
È un momento di passaggio cruciale per il mondo dei libri, di cui vogliamo essere testimoni in prima persona, partecipando attivamente al dibattito sui temi principali dell’editoria e della letteratura.
Da qui il desiderio di far nascere una nuova agenzia letteraria, AC², su idea di Anna Mioni, coadiuvata in questa avventura da Stefano Scalich.
Su queste pagine troverete approfondimenti e riflessioni sul mondo dell’editoria italiana e internazionale.
Per oggi lasciamo la parola al nostro sito, che illustra nei dettagli questo progetto.
Benvenuti a bordo, dunque, e buona navigazione.